La terra è un immenso ospedale psichiatrico – Fabio Biliotti

Un’affermazione di Norberto Keppe, apparentemente assurda, ma in realtà scientifica e pertanto vera. Le intuizioni positive dello psichiatra italiano Franco Basaglia.

“Mi sento obbligato a riconoscere che abitiamo in un immenso ospedale psichiatrico, colmo di malati, compresi gli specialisti che li curano… non esiste alcuna persona che non sia portatrice di qualche squilibrio mentale in maggiore o minor grado e, se tale situazione non verrà rapidamente coscientizzata, dovremo perdere la speranza di vedere la continuazione della nostra civiltà… La coscienza più urgente che dobbiamo avere è quella della situazione nevrotica dell’umanità, poiché viviamo in un pianeta-sanatorio dove, non solo il popolo, ma principalmente i suoi dirigenti, soffrono, in maggior o minor grado, di problemi alle facoltà mentali… scrivendo questo incorro in due tipi di conseguenze: la prima, e più acuta, è la rabbia che risveglierò in tutti quelli che si credono perfetti… e la seconda è la sfiducia di quelli che sono più equilibrati, ma che non hanno mai prestato attenzione ai fattori psicologici…”

Così si esprime Norberto Keppe nel suo ultimo libro che ha per titolo “Terra il Pianeta Illusorio”, ma che, come dice lo stesso Keppe “…potrebbe essere anche intitolato: Terra il Pianeta Artificiale; Terra il Pianeta Irreale; Terra il Pianeta Malato, Addormentato, Infermo, degli Ipocriti, Indesiderabile e, perfino, Inesistente, Superfluo, Inutile; insomma qualsiasi epiteto negativo potrebbe essere applicato a questa enorme sfera che gira nello spazio portando questo incredibile carico di esseri umani impazziti”.

Sono parole forti, apparentemente frutto di durezza, di scetticismo, di pessimismo, ma che in realtà, sono il frutto di un amore vero per l’umanità. In questo libro Keppe cerca di mettere in guardia sulla necessità, per gli individui, di coscientizzare questa patologia universale che colpisce il genere umano e che rischia di portarlo alla catastrofe e a sofferenze inenarrabili.

Chi ha a che fare, quotidianamente, come gli psicanalisti trilogici, con persone apparentemente del tutto normali (e comunque sicuramente molto più equilibrate di tanti che non ritengono di aver bisogno di un’analisi per conoscere le proprie patologie), si rende conto che questa attitudine patologica di autodistruzione è presente in tutti (in misure diverse naturalmente), e nessuno ne è immune. La responsabilità di queste persone inconscientizzate è quella di non volersi rendere conto del male che fanno a se stesse e alla società, contribuendo, fra le altre cose, a lasciare la strada libera all’affermarsi dei soggetti peggiori nel governo e nell’amministrazione della cosa pubblica e dell’economia.

Le ragioni che dimostrano come sia inderogabile e necessaria questa presa di coscienza, stanno davanti ai nostri occhi ogni giorno, a partire dai comportamenti quotidiani di tutte le famiglie, dove nascono sempre più difficoltà di relazione tra genitori e figli che spesso sfociano anche in efferati omicidi, o dai comportamenti sociali in cui balza sempre più evidente la rabbia e la violenza della massa, dalle manifestazioni sportive a quelle di rivendicazione sociale, o dai comportamenti degli stati che fanno esplodere guerre in tutto il pianeta, con il falso scopo di debellare il terrorismo, ma in realtà con il fine di affermare un potere ed espandere la propria influenza economica.

Se gli individui non volessero essere così ciechi, se non si rifiutassero di osservare meglio dentro se stessi, si accorgerebbero che questo nostro pianeta è regolato da comportamenti patologici, malati, estremamente distruttivi.

Questo atteggiamento di censura alla nostra coscienza ci porta spesso a crearci alibi giustificatori e a proiettare le nostre patologie sugli esseri più deboli che soccombono e che sono oggetto di una vera e propria persecuzione e di una separazione dal resto della società. Ciò succede anche nel microcosmo di una famiglia, quando, per non vedere le proprie patologie, i propri difetti, i propri errori, le proprie attitudini negative e corruttrici, si concentra la proiezione di tutto ciò sull’individuo più debole della famiglia e lo si spinge verso una separazione alienante; distruggendo così, non solo la vita di quell’individuo, ma anche quella di tutta la famiglia.

Da tutto ciò è nata l’esigenza, nel corso della storia, di istituire strutture segreganti come i manicomi e, nel migliore dei casi, di intervenire con atti di separazione della società “sana” dai cosiddetti “malati”, ricorrendo a pratiche psichiatriche che sono state e, in gran parte lo sono ancora oggi, pratiche alienanti e distruttrici della dignità umana.

Non si vuole ammettere che ognuno di noi deve prendersi cura del proprio equilibrio psicologico: lo deve fare il figlio schizofrenico, psicotico o “border line”, ma lo devono fare anche la madre e il padre che quel figlio hanno allevato e i fratelli e le sorelle che si fanno scudo del loro congiunto per vedere ignorate le loro patologie apparentemente meno gravi; e lo devono fare anche quegli psicanalisti che li prendono in cura. Finché ognuno di noi ricorrerà a questa censura della coscienza, saremo portati a non comprendere i disagi degli altri e a ritenere giusto il ricorso a strutture che difendano la cosiddetta “società civile sana”.

Ma queste strutture, vere e proprie prigioni, riducono l’essere umano che vi è ospitato a una cosa, un oggetto privo di ogni diritto e di ogni futuro. Nessuno rinchiuso lì, ne è mai uscito migliorato.

Questa coscienza fu percepita da un grande psichiatra italiano, Franco Basaglia, che comprese già 30 anni fa l’inutilità, anzi la funzione deteriore, dei manicomi “odiosa alleanza tra una giustizia ingiusta ed una medicina deteriore.

“L’istituzionalizzazione – come mi disse Basaglia in un’intervista che gli feci nel 1977 – crea sempre un’oppressione, perché essa risponde esclusivamente ai bisogni di se stessa e considera il soggetto affidatole alla stessa stregua di un oggetto: si tratta di una vera e propria mercificazione”.

Per Basaglia il malato di mente, il “matto”, doveva uscire dalla sua prigione che in fondo non faceva altro che istituzionalizzare e razionalizzare la sua malattia rendendola irreversibile.

“Certo – diceva già allora Basaglia dimostrando grande intuizione – Il ‘fuori’ non è preparato e tantomeno organizzato ad accettare il ‘dentro’, perché la gente di fuori si considera del tutto normale in quanto riesce a produrre e, di conseguenza, non accetta chi si pone come ostacolo a questo schema di società”.

Il “matto” dunque per Basaglia è molto spesso tale perché non corrisponde ad una certa organizzazione del lavoro. Ma è proprio questa organizzazione del lavoro, sulla quale si basano le società cosiddette avanzate, che ha sempre creato e crea le sue vittime: primi fra tutti i disoccupati che si vengono immediatamente a trovare nella posizione di “diversi” loro malgrado. Basaglia intuiva, sebbene ancora non del tutto chiaramente, che la soluzione del problema, non doveva e non poteva passare attraverso altre istituzionalizzazioni segreganti, ma attraverso una diversa organizzazione globale della società dove i “malati di mente” potessero socializzare il loro malessere, il loro disagio e le loro sofferenze che, è poi l’esigenza di ogni essere umano.

“Un soggetto – diceva Basaglia – afferma che i cani volano? E va bene che i cani per il momento volino pure! Ma egli ha oltre a quello, altri problemi che vanno ricondotti alla loro dimensione sociale. Occorre esaminare insieme quei problemi e insieme discuterli. Occorre comunque che il ‘malato’ si senta soggetto attivo e non merce scaricata in un posto in attesa che qualcuno, dall’esterno, lo restauri senza la sua diretta e consapevole partecipazione”.

Naturalmente le persone si aspettano sempre che qualcuno trovi delle soluzioni alternative che le scarichino delle loro responsabilità dirette, e non vogliono capire che non esistono soluzioni al di fuori dell’assunzione diretta di responsabilità, non esistono soluzioni alternative all’impegno diretto di ognuno di noi a saper trattare le proprie e le altrui patologie: questo modo passa inesorabilmente attraverso la coscientizzazione, prima di tutto, delle nostre patologie e attraverso un nuovo tipo di interrelazione personale e sociale.

“So – diceva Basaglia – che il pubblico si aspetterebbe una soluzione alternativa precisa, ben delineata e predeterminata in tutto, separandosi dalle problematiche dei cosiddetti ‘malati mentali’ e censurando la coscienza che si tratti invece di qualcosa che ci riguarda tutti. Io con il gesto di chiudere il manicomio di cui ho la responsabilità, ho voluto solamente obbligare la società nel suo complesso a prendersi carico di un problema che deve essere risolto in altro modo”.

Basaglia volle dunque con quel suo gesto, pur di fronte alla consapevolezza che la società cosiddetta “civile” non era pronta, avviare una presa di coscienza collettiva del fatto che era profondamente sbagliato l’atteggiamento di una comunità che rinchiudeva il “diverso” per non voler vedere le proprie patologie. Continuare in quel modo per Basaglia non sarebbe stato solo inutile, ma del tutto errato sotto tutti i punti di vista ad incominciare dal punto di vista scientifico. Per Basaglia la gente, gli operatori del settore e le istituzioni governative ed amministrative dovevano essere messe concretamente di fronte al problema da risolvere: “solo in questo modo – egli sostenne – potrà affermarsi una nuova professionalità del medico, la gente potrà mutare la visione che ha e tutto potrà progredire”.

Tre erano per lui gli elementi importanti in questo processo: la socializzazione della vita ad ogni livello, la conservazione della salute per tutti e il considerare le malattie come prodotti storici; questi tre elementi dovevano condurre all’obbiettivo centrale che era quello di combattere un’ideologia dominante che costituiva la fonte dei mali peggiori dell’attuale società.

Si trattava come si vede di buoni presupposti dai quali scaturivano buone intenzioni, ma mancava una base teorico-scientifica della psicopatologia e della sociopatologia, mancava la coscientizzazione di un’attitudine generalizzata “universale” come la definisce Keppe che è quella dell’Invidia che spinge l’individuo ad opporsi al bene e scegliere il male. E infatti, se si va a vedere, gli sviluppi del gesto di Basaglia, ci rendiamo conto che la società patologica, con i suoi individui patologici, ha praticamente annullato i benefici di un gesto come quello di Basaglia. È vero infatti che, da quel gesto, fu approvata una legge nel Parlamento Italiano che chiuse tutti i manicomi, ma, lo stesso Parlamento, non dette poi la giusta risposta alle intuizioni di Basaglia, reintroducendo una forma più edulcorata di “manicomi”, le cosiddette “case famiglia” che, sebbene inserite nel contesto urbano “normale”, ospitano comunque solamente persone “malate”, perpetuando una forma di separazione più attenuata, ma sempre di separazione. Infatti in quei condomini in cui queste “case famiglia” sono inserite, la “gente normale” si lamenta, chiede delle garanzie di sicurezza e pretende che vi sia una sorveglianza di personale specializzato, 24 ore su 24.

Inoltre a questi “malati” non si fa fare un percorso di analisi che renda possibile una coscientizzazione che li riporti al contatto con la loro coscienza e quindi con la realtà

. La vera soluzione sta invece nel creare in tutti gli individui più o meno malati, la coscienza delle loro patologie che li renda capaci di comprendere le patologie degli altri e di arrivare ad accettare e a sapersi relazionare con tutti gli individui anche se “difficili” e “problematici”. Ciò accade nei gruppi trilogici, composti da persone di varie provenienze sociali, culturali, nazionali, da varie persone più o meno patologiche, fra le quali vi si trovano individui, psicotici, schizofrenici, che però sono messi in grado di svolgere attività produttive nel contesto sociale e vivono con tutti gli altri senza alcuna discriminazione e senza alcun controllo specializzato, se non quello di tutta la comunità coscientizzata. I gruppi trilogici sono l’embrione di ciò che dovrà essere l’attitudine dell’individuo di domani: un individuo che abbandoni il criterio della selezione delle persone da frequentare (criterio che finisce per spingere l’individuo verso l’alienazione dalla realtà), ma che accetti di vivere in totale parità con tutti gli altri.

Se ci pensiamo bene infatti vediamo chiaramente quello che la gente fa oggi, senza rendersene conto: va alla ricerca delle persone che assecondino le loro patologie e perciò evitano tutti quelli che, in qualche modo, li metterebbero in contatto con le proprie patologie che non vogliono vedere. Nei gruppi trilogici invece le persone, al di là delle rispettive differenze e i rispettivi gradi di patologia, imparano a convivere insieme, anche a persone che, generalmente, nella società esterna verrebbero evitate e allontanate. Questo perché, nei gruppi trilogici le persone hanno imparato a vedere i propri limiti, i propri errori, i propri difetti, le proprie attitudini negative e distruttive e sono quindi più in grado di tollerare, o meglio, di accettare quelle degli altri.

Per arrivare a questo è necessario comprendere, come dice Keppe, che: “la coscienza più urgente che dobbiamo avere è quella della situazione nevrotica dell’umanità…”. Coscientizzare questo aspetto è fondamentale per tutti gli individui e per la società nel suo complesso se si vuole disinvertire il processo distruttivo verso il quale il mondo si sta avviando.